Ho preso a prestito un titolo di Raymond Carver per descrivere un concetto sempre più alla moda nel panorama del terzo settore ma che non smette di provocare confusioni, dubbi, reazioni scomposte. E ho scelto volutamente un testo della letteratura minimalista con l’ambizione di essere il più possibile conciso e concreto. Un dibattito si aggira per il web ed è quello che circonda la misurabilità degli impatti sociali. Detto in soldoni, fino a che punto è possibile sapere se un intervento in un ambito sociale ha prodotto gli effetti sperati, se ha raggiunto gli obiettivi che si era preposto? In UK, l’80% delle organizzazioni cerca di rispondere a questa domanda, in Italia solamente un’organizzazione su tre si chiede se alla fine dei conti le sue iniziative hanno condotto a qualche cambiamento concreto.
Qualche giorno fa, durante il Workshop sull’impresa sociale, il professor Carlo Borzaga ha messo in guardia dalla dicitura inclusa nel nuovo disegno di legge secondo cui le imprese sociali dovrebbero produrre “impatti sociali positivi misurabili”. Il rischio, ribadito su questo giornale, è che questo comporterebbe un costo eccessivo per piccole realtà, oltre che rappresentare un freno all’innovazione. Qualche giorno dopo, c’è chi ha criticato questi “tabù” sostenendo che non può esistere innovazione senza misurazione. La differenza di approccio, mi si permetta di interpretare, sta probabilmente nel fatto che mentre qualcuno guarda alla valutazione dell’impatto come a un processo interno di trasformazione, l’altro lo vede come un sistema esterno di rendicontazione.
Ma allora di cosa parliamo quando parliamo d’impatto? Il termine è oggettivamente ambiguo, complesso. Altrettanto lo sono i meccanismi, le metriche, con cui varie scuole teoriche hanno cercato di valutarlo, misurarlo, persino calcolarlo. Ma la domanda che porrei al professor Borzaga e che ogni organizzazione che opera nel terzo settore dovrebbe porsi è la seguente: è possibile sapere di stare innovando, di stare sviluppando dei modelli efficienti, efficaci, pertinenti senza qualche forma di misurazione dei propri risultati? E ancora, è possibile sapere di stare facendo qualcosa bene, o meglio di come si faceva prima, senza chiedersi dall’inizio e senza chiedere ai propri beneficiari e ai cosiddetti stakeholders cosa è cambiato, cosa sta cambiando nelle loro vite, nelle loro istituzioni, grazie ad uno specifico intervento?
La misurazione dell’impatto non è (non dovrebbe essere) una gabbia di regole e criteri all’interno della quale si rinchiudono e si costringono le iniziative sociali. Non è (non dovrebbe essere) un meccanismo per fornire risultati ad un ente censore esterno o ad un “impact investor” senza scrupoli. La misurazione è (dovrebbe essere) un processo, una cultura che fa dell’osservazione, dell’auto-osservazione e dell’apprendimento costante un motore del cambiamento. Dovrebbe fornire meccanismi di comparazione e apprendimento tra realtà che operano negli stessi settori e con finalità simili. Le metriche dovrebbero per questa ragione mantenere un carattere aperto, una flessibilità metodologica capace di includere e integrare meccanismi nuovi prodotti dalla ricerca e dalla sperimentazione. Allo stesso tempo, questo sì, dovrebbero anche garantire una certa forma di comunicabilità tra interventi e quindi per lo meno un linguaggio comune, un foglio di indicazioni e indicatori su cosa è possibile misurare, come, per quali obiettivi. Misurare è difficile, ma come ha detto qualche giorno fa Stefano Zamagni alle Giornate di Bertinoro, non è per nulla impossibile. E provarci è utile e necessario per tutti. Per questa ragione, l’idea recente di un gruppo di fondazioni e organizzazioni di andare verso un processo condiviso come Social Value Italia, non può che essere vista con speranza e curiosità.
Che la legge debba includere il concetto di misurabilità è forse superfluo, per certi versi persino pericoloso. Tra l’altro, non è mai stata la legge a modificare una cultura, semmai il contrario. Ma se la legge e i suoi strumenti attuativi arrivassero a definire degli incentivi in termini di risorse basati sull’innovazione, se incoraggiassero ad una cultura della trasparenza e dell’accountability (come si dice in italiano?), sono sicuro che anche i più scettici inizierebbero a mettere da parte i loro tabù, a gettare il cuore oltre l’ostacolo del realismo e ad apprezzare questa parola così ambigua e così trasformatrice.